C’è speranza per l’ideologia del gender

Il titolo di questo post è un tentativo di attualizzare l’operazione politica e semiotica che ha dato origine al termine che fonda l’esistenza del CIRQUE e la nostra collaborazione al suo interno, “queer”. Oggi “queer” designa una costellazione di teorie e di pratiche culturali, politiche e artistiche che hanno un posto ormai difficilmente contestabile nel panorama internazionale, non solo all’interno dell’accademia. Ma originariamente “queer” era un insulto, usato per denigrare le persone che non si conformavano alle identità sessuali o di genere socialmente prescritte; il significato nel quale oggi tutti ci riconosciamo con orgoglio è il risultato di un processo di appropriazione che ha avuto come premessa la rivendicazione come aspetto positivo e qualificante di caratteristiche che per il discorso e la mentalità comuni erano negative e infamanti.

Credo che sia venuto il momento di osare un’operazione analoga per un termine che nel discorso pubblico attuale viene usato con finalità e risultati molto simili: “ideologia del gender”.

La logica di questa operazione è evidente a chiunque abbia una conoscenza anche solo manualistica della teoria queer e degli studi di genere: anche se coloro che hanno coniato il termine non sembrano esserne consapevoli, quella che viene definita “ideologia del gender” non ha in realtà molto a che fare con i gender studies, ma presenta invece come elementi caratterizzanti (accanto ad alcune diffamazioni grottesche) i contenuti fondamentali del queer.

Questa che segue è una lettera aperta a coloro che usano questo termine credendo di insultarci: contiene un’esplicitazione della nostra posizione (1), un tentativo di costruire un modello della loro (2), e un’ipotesi sull’esito prevedibile del conflitto in cui siamo coinvolti (3).

Egrege signore, gentili signori,

1. Su un punto posso senz’altro rassicurarvi. Credetemi, davvero non ci è mai passato per la testa di insegnare ai bambini a masturbarsi: da che mondo è mondo, i bambini imparano a farlo da soli; anche quelli che, dopo essere stati esposti a un’educastrazione adeguatamente sessuofobica, preferiranno in seguito trascorrere il loro tempo libero in piedi nelle piazze, a manifestare non in difesa dei propri diritti, bensì contro quelli degli altri. Il resto, in compenso, è tutto vero: siamo convinti che il genere, con i suoi attributi e i suoi ruoli, non possegga alcuna consistenza ontologica ma sia socialmente costruito. Siamo perfettamente capaci di assumere posizioni estreme e radicali; questa, però, non è né radicale né estrema: ci stiamo limitando a citare la Convenzione di Istanbul, articolo 3, comma c.

Tutto il resto segue logicamente: dalla messa in questione dell’eterosessualità obbligatoria (e, se è per questo, del concetto stesso di identità sessuale), alla libertà di scegliere, definire e ridefinire il proprio genere (o assenza di genere), all’autodeterminazione del sesso, (non necessariamente ancorato agli schemi di una dicotomia biologica). E, a dire la verità, ci sarebbe pure dell’altro, che la vostra immaginazione prevedibilmente sessuocentrica potrebbe avere difficoltà a concepire: la possibilità di respingere le categorie del sesso, del genere e dell’orientamento sessuale come fattori di autodefinizione, e di scegliere invece di costituirsi come soggetti in relazione ad altri parametri, di rilevanza collettiva – marxista, animalista, femminista, antirazzista… – o di elaborazione individuale (“anestesista rianimatore appassionato di beach volley che scrive fantasy”, “contraltista che fa volontariato ospedaliero pediatrico e scatta foto naturalistiche”): l’unico limite è l’immaginazione…

2. Se provo a chiedermi come mai le possibilità che ho appena delineato evochino in voi una sensazione di così intensa minaccia, l’unica risposta che riesco a darmi senza mettere in dubbio la vostra buona fede è la seguente: il sesso, il genere e l’orientamento sessuale condividono con gli altri dispositivi che le società usano per categorizzare i propri membri (come l’età, l’origine etnica, la classe sociale o la professione) una funzione importantissima per garantire la produzione e la comprensione dell’ordine sociale: quella di costituire un criterio di spiegazione non modificabile dall’esperienza e invulnerabile alla critica. Queste due caratteristiche fanno di queste categorie sociali uno strumento da un lato socialmente repressivo e politicamente retrivo, e dall’altro straordinariamente efficace e pertanto enormemente rassicurante. Esaminiamo più da vicino il suo funzionamento.

Come il sociologo statunitense Harvey Sacks ha osservato ormai circa cinquant’anni fa, le categorie utilizzate da una società per suddividere i suoi membri (tra cui ovviamente hanno un ruolo fondamentale quelle di “maschio” e di “femmina”) funzionano in primo luogo come un meccanismo di spiegazione. Le categorie sociali (come ad esempio il sesso) sono infatti organizzate in insiemi che hanno tre caratteristiche:

a) le categorie di ciascuno possono essere usate per classificare tutti i membri di una società: prendendo come esempio il sesso, tutti devono avere un sesso e soltanto uno, scelto in una gamma predefinita costituita da due sole opzioni rigorosamente determinate (e qui si aprirebbe il capitolo di tutto quello che si considera lecito fargli se non ce l’hanno… );

b) le informazioni che una società crea e fa circolare riguardo ai suoi membri sono collegate a queste categorie; continuando con il nostro esempio, si ritiene comunemente di poter attribuire alle persone di un certo sesso determinate caratteristiche: come tutti sanno, le donne sono irrazionali ed emotive mentre gli uomini sono razionali e hanno difficoltà a provare ed esprimere emozioni, e via stereotipando;

c) queste attribuzioni riguardano tutti i membri di una certa categoria: “le donne sono fatte così”.

Queste ultime due proprietà delle categorie servono a spiegare, almeno in parte, il vero e proprio panico suscitato (ad esempio in voi…) dai soggetti che, per i più vari motivi, risultano difficili da collocare all’interno delle categorie stesse, o che rifiutano di essere classificati per loro mezzo: per un individuo, essere non classificabile in base alle categorie sociali vuol dire essere inconoscibile, incomprensibile, inesplicabile; di conseguenza, per la società, accettare che, ad esempio, alcune persone mettano in questione le categorie del sesso o del genere vorrebbe dire rinunciare a una parte dei meccanismi di spiegazione prevalenti e generalmente accettati, e quindi abdicare a una parte del potere di razionalizzazione e di previsione che tiene insieme la società come struttura cognitiva.

Sacks osserva inoltre che tra le informazioni collegate in maniera necessaria e sostanziale alle categorie c’è l’attribuzione a particolari categorie di determinate attività. L’evidente valenza normativa di questa attribuzione esercita un’altrettanto evidente azione coercitiva sui comportamenti e sulle emozioni: se in una società esiste la categoria “donna”, e se a questa categoria come attività che la definiscono vengono attribuite la cura della casa e dei figli, i soggetti che si identificheranno come donne dovranno, per essere considerati, e per considerarsi, esemplari non difettosi o problematici della categoria, occuparsi della casa (il che ha naturalmente come presupposto avere una casa di cui occuparsi) e prendersi cura dei figli (e questo ha come presupposto avere dei figli di cui prendersi cura); e soprattutto, visto che la categoria “donna” viene definita come una categoria “naturale”, dovranno desiderare spontaneamente di avere una casa e dei figli e di prendersene cura, considerando queste emozioni e questi comportamenti come parte della propria più profonda natura, senza percepire l’effetto di alcuna coercizione e, idealmente, senza neppure concepire la possibilità di un’alternativa.

Le categorie, e le proprietà e le attività che le definiscono, rappresentano quindi un dispositivo fondamentale nell’impresa, in cui siamo tutti continuamente coinvolti, come singoli individui e come cultura nel suo complesso, di rendere comprensibili, spiegabili e prevedibili gli eventi. Questa loro azione cognitiva ha luogo attraverso il controllo della variabilità degli eventi stessi: se ciascuna categoria socialmente definita compie le azioni che le sono prescritte, e si astiene dal compiere quelle che le sono interdette, il comportamento di ciascun individuo risulterà perfettamente prevedibile sulla base della sua appartenenza a una o più categorie sociali (“le bambine giocano con le bambole, portano vestitini rosa e non capiscono la matematica”); non solo, ma le definizioni associate alla categoria come sue proprietà naturali forniranno una spiegazione universalmente accettata e comprensibile di questi stessi comportamenti (“gioca con le bambole perché è una bambina”, “porta un vestitino rosa perché è una bambina”, “non capisce la matematica perché è una bambina”).

3. Questo modello ci permette di dare un’interpretazione del significato più profondo dell’attuale conflitto tra persone che desiderano vedere riconosciuto il proprio diritto ad autodefinirsi, e a non essere discriminate in conseguenza della propria autodefinizione, e persone che, come voi, desiderano invece reprimere la libertà di autodefinizione degli altri. La posta in gioco ultima di questo conflitto è il controllo sociale, vale a dire la limitazione coercitiva della possibilità di autodeterminazione degli individui al fine di conservare l’efficacia delle categorie sociali come strumenti per spiegare, prevedere e controllare i comportamenti.

Il problema è che, da sempre e in ogni caso, questa efficacia è largamente illusoria. Alla luce di quanto abbiamo detto, è evidente che il potere esplicativo delle categorie (per cui, se un’attività attribuita come propria a una categoria viene compiuta da una persona appartenente alla categoria cui essa è attribuita, questo fatto viene considerato di per sé una spiegazione dell’attività stessa) rappresenta il meccanismo alla base del funzionamento degli stereotipi discriminatori: ad esempio, considerare il commettere reati come un’attività legata a particolari categorie esime non soltanto dal chiedersi come mai un singolo individuo appartenente a una categoria discriminata ha commesso quel particolare reato ma, spesso, anche se lo abbia effettivamente commesso. Ma quello che non è evidente, e che è tuttavia fondamentale riconoscere, è che le conoscenze codificate e trasmesse attraverso le categorie e le loro caratterizzazioni hanno la proprietà di essere, come dice Sacks, “protette contro l’induzione”. Questo vuol dire che sono in grado di sopravvivere inalterate a un numero non importa quanto alto di eventi non importa quanto salienti che le contraddicono in maniera anche evidente: l’esperienza, per quanto frequente e significativa, non ha il potere di modificarle. Ad esempio, l’esperienza di donne, omosessuali o neri che non corrispondono agli stereotipi sessisti, omofobi o razzisti non ha l’effetto di far cambiare idea al sessista, omofobo o razzista di turno: queste persone vengono semplicemente classificate come “eccezioni che confermano la regola”, dove la regola è, chiaramente, lo stereotipo, che (a differenza delle persone che serve ad opprimere…) continua a godere di ottima salute.

Il mio discorso tuttavia non ha come unica finalità la decostruzione critica delle categorie sociali e del loro funzionamento (finalità che, nel caso questo dettaglio vi sia finora sfuggito, costituisce l’attività definitoria di un’analisi queer). L’obiettivo della mia argomentazione è decisamente più ampio. Per comprenderne la reale portata è necessario fare un passo indietro, allargando il campo della nostra visuale da un lato dalle categorie del sesso e del genere alle altre categorie identitarie, e dall’altro dalla situazione attuale alla storia degli ultimi due secoli circa. La sostanziale omologia e contiguità tra le categorie del sesso e del genere e altre categorie dotate delle stesse funzioni esplicative, come la nascita, la professione o l’origine etnica, permette infatti di individuare una continuità di lunga durata tra le attuali lotte per l’affermazione dei diritti all’autodeterminazione legati all’identità e all’orientamento sessuale e altri diritti all’autodeterminazione, che oggi tutti noi consideriamo definitivamente acquisiti e assolutamente indiscutibili, ma che pochi decenni o poche centinaia di anni or sono erano, più che controversi, inconcepibili. Nell’antico regime era considerato conforme alla volontà di Dio che il destino di un essere umano fosse determinato alla nascita dalle condizioni sociali dei genitori; e anche successivamente, il diritto dell’individuo, anche eterosessuale, a determinare liberamente, attraverso la scelta del coniuge, la configurazione dei propri legami familiari è stato a lungo tutt’altro che pacifico, così come tutt’altro che scontata è stata la libertà individuale nella scelta di un’altra categoria rilevante per la determinazione dell’identità sociale, quella della professione. Per tutta la storia conosciuta dell’umanità la funzione regolatoria e predittiva di queste categorie sociali, e il loro ruolo nel mantenimento dell’ordine sociale come struttura di significati prevedibile e comprensibile attraverso il controllo coercitivo delle scelte individuali, sono stati sistematicamente e spietatamente anteposti al diritto dei singoli all’autodeterminazione; se prendiamo come unità di misura la storia della civiltà occidentale, è solo da pochissimo tempo che questa situazione è cambiata. Ma oggi questo risultato è a tal punto evidente e incontrovertibile che un ritorno a una situazione in cui, ad esempio, lo status di un individuo nella società sia determinato una volta per tutte alla nascita da fattori indipendenti dalla sua volontà, o in cui le famiglie obblighino i figli ad intraprendere un determinato mestiere, o combinino i loro matrimoni, è per noi semplicemente inconcepibile.

Il vero obiettivo della lotta portata avanti oggi dai sostenitori dell’ideologia del gender si configura come una semplice operazione logica di generalizzazione: uno sviluppo del tutto prevedibile e coerente di quel percorso di affermazione dei diritti della persona che ha avuto inizio nella nostra cultura con il crollo dell’antico regime; uno sviluppo che passa per l’estensione a tutte le categorie identitarie dello stesso fondamentale diritto degli individui all’autodefinizione che trova espressione nella possibilità, che la nostra cultura riconosce oggi a chiunque, di scegliere liberamente il proprio mestiere o di entrare a far parte di una classe sociale diversa da quella dei propri genitori. E che questo diritto di ciascuno ad autodefinirsi e ad autodeterminarsi sia per noi effettivamente indiscutibile e non negoziabile è dimostrato dalla profonda perplessità con cui non possiamo fare a meno di considerare i costumi di società dove invece la determinazione di queste categorie identitarie rimane ancora sottratta al controllo dell’individuo. Il fine che ci proponiamo è quello di completare un percorso che ha avuto inizio con l’Illuminismo: l’uscita da uno stato di minorità che non riguarda semplicemente l’esercizio astratto e teorico delle facoltà intellettuali bensì tutte le forme di relazione tra l’individuo e la società.

La storia è dalla nostra parte.

Fatevene una ragione.

Carmen Dell’Aversano

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2 risposte a C’è speranza per l’ideologia del gender

  1. Beatrice Geroldi scrive:

    Concordo, sulla funzione degli stereotipi. Per quanto riguarda la libertà di autodeterminarsi, che comprende coerentemente quella di autodefinirsi, mi chiedo come mai, quando vuole affermarsi a dispetto della verità biologica, si estrinseca nell’assunzione di stilemi comunque codificati e addirittura accentuati. Ad esempio, per essere diversi da quello che ci si trova ad essere: baffi e barbette, capelli rasi, muscoletti e giubbini borchiati, posture aperte, ecc. Vere e proprie caricature, noiose.
    Io eliminerei le codificazioni M – F e anche Neutro. Guarderei la persona e le sue qualità umane, non l’ apparenza, che a questo punto non necessiterebbe più di essere esibita, essendo ininfluente al riconoscimento.

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